Gigi Proietti, continua a vivere con l’uscita di un libro di sonetti a cura della famiglia
L’ultimo, inatteso regalo alla sua famiglia – e tramite loro a tutti i suoi fan- Gigi Proietti l’ha fatto con i circa ottanta sonetti (in gran parte inediti) scritti fra il 1997 e il 2020, le quindici poesie e il romanzo incompiuto che, riuniti sotto il titolo del romanzo stesso – Ndo cojo cojo, sottotitolo “Sonetti e sberleffi fuori da ogni regola” (Rizzoli) – escono domani in libreria. “Papà scriveva ovunque, tranne che sulle decine di quaderni che mamma gli regalava, appositamente ma invano – racconta la figlia Carlotta, cantante e attrice – Dopo la sua scomparsa, ritrovandoci fra le mani un simile tesoro, ci siamo chiesti: è giusto pubblicare tutto? Sono materiali così diversi, papà non aveva potuto completarli”. Ne è venuto fuori assomiglia in tutto e per tutto ad uno spettacolo di Gigi Proietti: “Elementi eterogenei, anche molto diversi fra loro, uniti solo dall’estro di chi li ha creati. Esattamente come negli one man show inventati da papà”.
L’incompiutezza del romanzo, ad esempio, non ne impedisce un pieno, gustoso apprezzamento: “La trama quasi non esiste, sono le cronache bizzarre dei caratteristici clienti del Bar Ciofeca, dal soprannome del proprietario, Er Ciofeca appunto, che prepara loro un caffè orrendo (ciofeca, in romanesco). Papà lo scriveva per divertirsi, e a leggerlo diverte moltissimo”. I sonetti, riguardo i quali l’autore umilmente si definiva solo “un rifugiato poetico”, e solo in minima parte già pubblicati, spaziano tra gli argomenti più disparati: “i sono quelli dedicati a Roma, innanzitutto, i miei preferiti, che tra bonomia e scetticismo rappresentano una sintesi del mondo di mio padre. E del modo in cui lo viveva”. C’è la politica, in cui una penna più pungente e anche aspra prende di mira personaggi, cronache molto precise: Rutelli, Salvini, il populismo “Erano lo sfogo con cui papà esprimeva la sua rabbia, la sua delusione”. E c’è il teatro, naturalmente: il luogo “dove tutto è finto ma niente c’è di falso”, e perfino la morte è bella, proprio perché finta. Se all’attore “je tocca morì sopra le scene / è vero che non more veramente / sennò, che morirebbe così bene?”. Ne salta fuori una romanità morbida, sorniona, “più legata alla benevolenza di un Trilussa che all’acido moralismo di un Belli. Una romanità molto simile a quello che era lui: un uomo buono. Uno che tendeva sempre a perdonare”.
Padre esigente, ma mai veramente severo. “Ci sgridava rarissimamente. Sapeva quale grande capacità di sdrammatizzare, e stigmatizzare assieme, abbia una parolina azzeccata. Così, se io o mia sorella ne combinavamo qualcuna, invece di una ramanzina ci puniva con una battuta. Che era anche peggio: perché ti colpiva al cuore”.