Leggendo “Rubli e Lire”, di Simona Blasutig e Daniele Ossola
Un libro fuori dal comune, contenente la verità e il pensiero sperimentale; alla lettura ci si addentra prontamente nei costumi rigidi e furenti dell’autorevolezza staliniana.
In Italia, nel dopoguerra, risultava comunque facile cogliere un’occupazione, addirittura si aveva modo di decidere tra varie proposte.
Già, annaspare nell’indecisione voleva dire addolorarsi senza una giusta causa, e quindi oscurarsi.
In “Rubli e Lire” la dietrologia dovuta dal secondo conflitto mondiale verte sui processi sovietici.
La questione sulla quale si stende un velo pietoso, incitando all’orgoglio ideologico e nonostante i fatti parlino chiaro, si riferisce nient’altro che all’Incapacità.
E l’amore muore temendo di per sé il male di vivere.
Il centro dell’Unione Sovietica si pone realmente, urbanamente, soffocando alla leggera, banalizzando il male che si riserva un fermento attitudinale, tra lo storico e l’inviolabile.
I controlli si riversano da ogni angolo, eticizzando un popolo, annichilendo il singolo individuo.
Qui ci si muove normalmente, come se fosse giusto restare agganciati a ogni sorta di leaderismo, anche quello che verrà.
Madre Russia è una donna corpulenta che traduce il valore dei beni in denaro sentenziando pigramente, dando un senso con burocratica flemma e infine apponendo una firma incancellabile.
E pensare che, almeno prima, la povertà – in salsa staliniana – veniva spartita, i facoltosi scarseggiavano non dando adito all’immaginario per non mettere oltremodo a repentaglio la psiche di chi aveva il portafoglio che piangeva.
Chiunque, per mezzo del socialismo intransigente, si può vantare d’essere a servizio della nazione.
Costoro si avvolgono nella miseria, ignari però di ciò.
I sovietici ci tengono a un tepore domestico che rasenta il dramma a ripetizione, con una moltitudine di persone costrette a dimorare come a conoscersi involontariamente… una mescolanza di nuclei familiari tanto espansa quanto ristretta dal punto di vista strutturale, a discapito dell’eros, nel senso che gli affari di cuore si concretizzano tramite scappatoie vergognose, senza mai e poi mai starsene tranquilli.
Il popolo russo risulta penoso, costretto a soccombere a un eccesso di presunzione, garantito dal medesimo.
Il problema si manifesta “sinistro”, a causa di uno sfacelo che risparmia niente e nessuno, a parte coloro che hanno modo di scegliere dall’alto come andare avanti.
Quanto percepito in termini occupazionali non è connesso alle finanze pubbliche, agli utili d’impresa, né proporzionato al talento, alle compravendite insite in un oggetto qualunque come un bisogno d’alimentare soddisfacendolo… ma soprattutto non conta il sacrificio dei mestieranti.
Il destino disegna profili non troppo appetitosi, fondati sull’indispensabile per sopravvivere e non per vivere, potendo riempire la pancia in una maniera insana, con l’apparenza a farsi benedire.
Un aspetto della capitale russa che la guida turistica (e non solo) non tollera, evitandolo a spregio della cultura, anche se la miseria, che risiede dove a tutti è concessa una possibilità per emergere, non incuriosirebbe quanto quella che persevera per davvero tra chi si professa comunista.
In Italia, a Milano più precisamente, Aurora ha il compito di agevolare gli accessi al laboratorio sanitario diretto dall’eccelso dott. Brambilla.
Arriva fino all’età della pensione, quando ci si può infischiare degli arrivisti dall’alto tasso d’immoralità, celabile come se nulla fosse, come a voler alleviare un dolore collettivo ma che puzza sempre di denaro.
Sfidando il maschilismo, immaginando generatrici di vita stavolta in grado di dichiararsi indipendenti, sorride agli ostacoli.
Hans, il compagno di vita di Aurora, si era allontanato da lei repentinamente tanto che ne rimase falcidiata.
Incoraggiandosi da sola, Aurora per cambiare vita si sposta da una residenza meneghina all’altra, sostenendo dinanzi alla sua immagine che un domani nessun soggetto di genere maschile l’avrebbe più illusa e demotivata.
Di certo li avrebbe sedotti e abbandonati affinché provassero d’incanto uno e più sentimenti agonizzanti, col conto dei sensi in passivo.
Osserva come delle direzioni siano fedeli, racchiuse in una forma d’attivismo, alla solitudine; sembrando alla vista propense passo dopo passo a una fusione come se voluta dall’orizzonte, quando invece, fondamentalmente, il distinguo è lapidario, per derive ideologiche e inaccessibili.
Gli autori di questo racconto fanno notare che i fenomeni d’illegalità, inesauribili al momento di trattare commercialmente, di stringersi la mano quando invece l’uno schiaccia l’altro, di raccomandare dei cari, sortiscono un patrimonio accecante, macchiando il fondamento valoriale.
Consolidati, null’affatto più casuali, accolti nei luoghi della sanità perfino dal datore di lavoro di Aurora che li orchestra professionalmente senza badare al bene comune… e col belpaese che non si sente in soggezione!
Aurora piuttosto vuole rimettere in ballo un insieme di timori e di traumi confidandoli a persone fidate come Angelina; perché non può dimenticarsi d’essere stata una ragazza anche lei, immatura a tal punto da non concepirli per un sentore, non per forza demotivante, nei passi da compiere interiormente, spinta dai sogni.
In particolare predilige le donne dalla tacita azione, quella intuibile alla luce di particolari inerenti alla natura che rifiorisce flebile, meravigliosa dacché contenuta.
In silenzio Aurora e la sua più fidata amica, Angelina, s’impegnano con un fare indagatorio senza capo né coda, per chiarire definitivamente dei segreti che non smettono d’intensificarsi approfittando dell’ingenuità di chiunque capiti a tiro.
Tanto varrà scavarsi dentro e avventurarsi nel domani con una funzione di volontariato da rinfrescare a stretto contatto con un’umanità avanti con l’età, che soffre lo scorrere di giorni sempre più “cari”.
Al lento decadere del regime mussoliniano, il dott. Brambilla s’illuminò assorbito da uno dei piccoli, grandi gruppi antifascisti, quello ispirato da Garibaldi, “il re dei due mondi”, costituito e consolidato per cambiare le sorti del belpaese come vollero i comunisti.
Si fece chiamare Cino, venne arruolato per dare lezioni di diplomazia a chi si prestò alla causa, e preservare una funzione salvifica, eticamente sostenibile, non dovendo dimenticare il perché della lotta.
Il ritorno in Urss, dall’Italia, serviva al Dr. Brambilla per chiudere fori di favore, all’oscuro di uno stare insieme, se non lo si reputava una scusante tale d’alleggerire degli allontanamenti dal lavoro, definitivi, con piacevole encomio.
Ma qui la popolazione si sentiva o no pressata dai fatti più che reali?
Il dubbio aleggiava, domabile, visto un mutismo da comprendere in esclusiva.
Impaurita, cordiale, miserevole la gente in Russia pareva nascondersi dentro un tritacarne gestionale.
Decaduta la svolta scandalistica riguardante il laboratorio sanitario diretto dall’ormai corrotto dott. Brambilla, Aurora deve ritrovarsi, al centro del nulla, necessitando di tenere conto di un particolare: distante dal ruolo professionale che ricopriva da anni e anni, ma curiosa di sapere come se la cavano adesso quelli che si adoperavano più o meno come lei, si evince di botto dell’irrisorietà comunicativa, dato che trattasi di vite impossibili da ricongiungere, raccolte semmai da una meccanica completamente estraniante.
Le condizioni di salute del Dr. Brambilla peggioravano, l’interrogativo a tal proposito s’ingrandiva, circa qualcosa che non andava a un uomo a dir poco determinante per le vite altrui; ma lui stesso non ne voleva sapere, quindi era inutile preoccuparsi anche perché, oltre alla sua salute, si necessitava di aspettare un “dentro o fuori” sempre più appassionante.
Tecnicamente, tra ritrosia e ricerca, è evidente la costruzione di un testo fluido, dal pensiero dominante ma con la voglia di un confronto intellettuale.
Gli autori hanno tracciato profili tra il familiare e l’imprendibile, con dell’amarezza tra l’intimistico e l’epocale.
Il lettore è alle prese con la radiografia di una malafede per figure e atmosfere d’attendibilità sociologica e di rappresentatività antropologica.
Sfogliando le pagine, delle domande si moltiplicano cercando dentro delle risposte, essendoci confini da esplorare con lucido, formale rigore.
Il coacervo di rifiuti sulla presenza umana diventa emblematico col dialogare serrato di chi ragiona dei massimi sistemi, facendone un’opera radicale, di disincantata durezza.
L’acutezza nell’osservazione di un fenomeno ideologico invece diventa una superficie riflettente per i personaggi con il loro bagaglio di esperienze, aventi una forza simbolica ma in questo caso con delle implicazioni immaginabili.
L’esibizione narcisistica su certezze e scelte richiede sempre un attraversamento esistenziale.
Libro d’impianto teatrale, dato un universo cupo, claustrofobico, ma molto introspettivo.
Precisa e profonda la descrizione di ambienti e procedure, ad alleviare quel segno d’ossessiva insistenza tematica… ne giovano storie e destini che non smetteranno mai di chiedere d’essere ascoltati.
Sì, v’è un clima di sospetti e conflitti, per tutta un’indagine atta a scuotere le coscienze, più interna che apparente, di figure che non stonano drammaticamente.
Da questa lettura si evince che riserbo e crudeltà d’animo costituiscono la salvezza; appartengono a un modo per galleggiare nella realtà, traumatizzante tra le forme d’analisi, con la scaltrezza mentale per recuperarli di netto, per tornare nel giusto, ritenendoli attimi irrinunciabili per tracciare la via del buonsenso.
Il cuore batte sfortunatamente illuminando all’estremo dell’innocenza, intossicato perlopiù dai fumi dell’esterno rosicare, molte volte a danno della vita… tanto vale ascoltarlo fino alla fine, a sprezzo del buio tuonante, che ci disorienta fino a voler male coloro che non se lo meritano.
Libro calibratissimo, dallo sfondo incisivo, con una struttura lineare per un linguaggio elementare ma per cui a sua volta v’è la padronanza della lingua, specie quando si è alle prese coi dettagli storiografici.
La tematica traspare bene grazie a un approccio alla macroanalisi preoccupato ma non disfattista.
Identificativi certi dialoghetti, dallo stile sulfureo, estetizzante, tra microcosmi chiusi, in cui anche un sentimento puro diventa devastante.
Il tempo della lettura (sottile e chirurgica) sembra battere come un ordigno, su una storia pregna di echi, d’impronte trascorse e mai passate, scritta in modo lucido e pacato… trama dai nodi fondamentali, difatti le attese sono abilmente suggerite dagli autori, i quali procedono per allusioni, sottintesi e rinvii della sorpresa finale, diabolica, che riguarda la protagonista del romanzo, Aurora.
Grazie a questa lettura ci sta eccome la consapevolezza circa uno stato perenne di precarietà legante emozioni da maturare, oltre al fatto di come sia ardua la tutela degli onesti guadagni… la cattiveria può dimorare nella gente, con gli uomini che pensando solo a se stessi continuano in fondo a relegare le donne, ignari però di una forma di ribellione che solo quest’ultime sono in grado di caratterizzare, senza che poi si torni indietro.