Il male vince ancora sull’amore: Ilaria Sula, 22 anni, l’ennesima vittima della pretesa di possesso di un uomo

C’è qualcosa di così ancestrale, anacronistico e fragile in superficie, ma al tempo stesso duro a morire: il vergognoso fenomeno del femminicidio.
Si torna – o si continua – a parlare di Femminicidio, un retaggio che affonda le sue radici in epoche lontane, eppure ancora oggi così incredibilmente resistente.
Sì, perché, nonostante viviamo in un mondo – quello occidentale – in cui le donne possono sopravvivere alla nascita, essere registrate all’anagrafe, studiare, non sono obbligate a sposarsi né ad avere figli, possono lavorare e, pensate, hanno perfino il diritto di abortire (anche se si tratta, qui, di un diritto solo parzialmente riconosciuto: in molti casi – troppi, infatti – sono costrette a subire vere e proprie torture psicologiche che, quasi come un elettroshock emotivo, mirano a condurle verso un’idea tradizionale e imposta di maternità, come se il diritto di scegliere non fosse mai davvero legittimo, come se l’istinto materno fosse un dovere da cui è impossibile sfuggire), ancora oggi vengono uccise per mano di mariti, fidanzati, padri o spasimanti.
Ilaria Sula, l’ennesima vittima: quando “l’amore” uccide
Ilaria Sula aveva 22 anni, studiava Statistica alla Sapienza di Roma e aveva tutta la vita davanti. A strappargliela via è stato l’ex fidanzato, Mark Samson, in un gesto che non ha nulla di improvviso, ma tutto di sistemico. È l’ennesimo femminicidio che lascia sgomenti, ma anche stanchi di parole e promesse. Perché questa tragedia non è un incidente, è una regola che si ripete. Conosciamo già la storia, il copione è sempre lo stesso. Solo il nome cambia.
Mark ha ucciso Ilaria in un presunto raptus di rabbia, scatenato da un messaggio ricevuto da lei sul cellulare. Tuttavia, subito dopo il delitto, ha manifestato un comportamento di sorprendente freddezza e autocontrollo: è uscito a mangiare con un’amica della vittima, ha intrattenuto conversazioni banali e ha persino inviato messaggi dal telefono di Ilaria per far credere che fosse ancora viva. Questa apparente incongruenza caratteriale apre interrogativi rilevanti: verrà valutato attraverso una perizia psichiatrica come incapace di intendere e di volere nel momento dell’omicidio? È plausibile che l’autocontrollo emerga solo a crimine compiuto, mentre prima si è del tutto in balia di un impulso irrefrenabile? È certo che vi siano elementi patologici, ma fino a che punto è lecito attribuire sempre un’attenuante? Si rischia di trasformare ogni devianza in una giustificazione. Mark è forse malato, sì, ma della società che troppo spesso assolve e minimizza.
L’università si ferma, ma la società non può e non deve farlo
Lunedì 7 aprile, l’Università La Sapienza ha sospeso tutte le lezioni in segno di lutto per la morte della studentessa. Un gesto nobile, doveroso, simbolico. Ma i simboli da soli non bastano. Bandiere a mezz’asta e cerimonie non cancellano il fatto che una giovane donna è stata uccisa perché un uomo ha deciso per lei, della sua vita. Il minuto di silenzio non copre il rumore assordante dell’indifferenza che, giorno dopo giorno, permette che questi crimini accadano.
La Sapienza si ferma. Ma poi? Si torna alla normalità, quella stessa normalità che ha ucciso Ilaria. Perché il problema non è solo chi ha premuto il grilletto, ma chi ha permesso che accadesse.
Il femminicidio non è un’emergenza: è una cultura
Parlare ancora di “emergenza femminicidi” è un insulto.
Non si può considerare emergenza ciò che è sistemico. Ogni tre giorni una donna viene uccisa in Italia per mano di un uomo, spesso un ex, un partner, un familiare. È il retaggio di una cultura patriarcale che vede la donna come proprietà, come oggetto da controllare, da punire. Le denunce ignorate, i segnali minimizzati, la protezione assente: il sistema giudiziario e sociale spesso tradisce le donne prima ancora che il carnefice agisca.
Dopo Ilaria, chi sarà la prossima?
Si perché tristemente si tratta di uno spaventoso conto alla rovescia.
Dopo Ilaria ci sarà un’altra Ilaria, e poi un’altra ancora. Il rispetto non si insegna con una giornata di lutto, ma con una rivoluzione culturale che comincia dalla scuola, dalla famiglia, dalla politica. Serve prevenzione, educazione emotiva, assistenza reale. Servono soldi, leggi efficaci, centri antiviolenza finanziati e sicuri.
Non dimenticare Ilaria
Tu, che cresci un figlio maschio, e gli insegni che l’amore non è possesso, che un “no” non è un affronto, che la libertà dell’altro è sacra: non dimenticare Ilaria.
Tu, madre, che cresci tua figlia con amore, la vegli con la febbre, la culli tra le braccia, le insegni a sognare: non dimenticare Ilaria.
Tu, padre, che le baci la fronte e le prometti, in silenzio, che nessuno le farà mai del male: non dimenticare Ilaria.
Tu, genitore, spera sempre che mai arrivi un mostro a decidere per tua figlia.
Perché ha letto un messaggio.
Perché non accetta un “no”.
Perché crede che l’amore sia possesso.
Spera che tua figlia non sia mai costretta a pagare con la vita il diritto di essere libera.
Non dimentichiamo Ilaria, non per pietà, ma per rabbia. Perché il vero rispetto non è il silenzio, è la lotta.