Alberto Fiori…
Ha fondato due band (C15 e Melatti), componendo canzoni ha imparato l’arte del racconto.
Quando scrive tiene il tempo con il piede.
“Scrittista-Musitore” è la definizione che più gli si addice perché per lui non c’è distanza tra la chiave di violino e quella di lettura.
Nel 2016 scrive Il Capitolo che non c’era di Pinocchio (Ed. Ifix), i suoi racconti sono stati pubblicati da Rai Eri e l’Erudita, “tutto il resto sono bugie” .
Caro Alberto, per avere un ruolo fisso nella società civile si deve fermare il mondo, conviene spiegare (o raccontare?) qualcosa (e a chi?)?
In una società dove gli istinti di molti stanno tornando a livelli primordiali, l’unico modo a mio avviso per provare a rieducare è quello di raccontare. Il racconto è la prima forma d’intrattenimento a cui tutti abbiamo fatto da spettatori. Ognuno di noi è stato almeno una volta sulle ginocchia o tra le braccia di qualcuno ad ascoltarne uno. Nel racconto si possono celare tanti trabocchetti per portare il lettore a notare un punto di vista diverso dal proprio; dirglielo apertamente in faccia, quindi spiegare che forse dovrebbe guardare oltre, costruisce immediatamente un muro tra le parti; non ti dico che il razzismo è il pensiero più idiota che una mente umana possa produrre, te lo racconto attraverso la storia di chi ne è stato vittima, facendoti credere che tu, paladino della razza, ne sia il protagonista, mentre invece ne sei la causa.
Uno show di successo può fare a meno della Parola?
Della parola non si può fare a meno, la parola è ragionamento, ricerca di una soluzione, ma deve rimanere comprensibile. L’interlocutore deve sapere parlare a chiunque, analizzando chi ha davanti. Quando entro in un museo per esempio, oltre le opere, m’incanto a leggere sulle pareti allestite le frasi degli artisti, il loro pensiero. Quelle parole o sono state il perché di quel processo creativo o una conseguenza di esso; l’arte è madre e figlia di un pensiero nello stesso istante.
Ti lasci rapire dalla malinconia per farti ritrovare dall’ironia?
Mi lascio rapire dalla curiosità. Sono molto attento a ciò che vedo in giro, una sorta di comare di paese che però non sparla, ma scrive. Uso una tecnica appresa quando praticavo arti marziali sfruttando la forza dell’avversario. A cosa serve arrabbiarsi, condividere se si è indignati? Prendo quel pensiero e lo trasformo nel mio punto di forza, lo analizzo e lo ridicolizzo. La malinconia spesso mi affligge, mi scoraggio quando ciò che vedo ha solo un punto di vista, quello becero di chi lo ha partorito; quando hanno immortalato un ragazzo che tentava di reggersi in equilibrio su una delle rotaie che portavano ad Auschwitz, mi sono solo chiesto l’equilibrio dove stesse.
È meglio perdere tempo a riflettere sui proverbi o a rispondere agl’indovinelli?
Gli indovinelli vogliono una risposta e spesso chi la pone lo fa da sopra un piedistallo, preferisco di gran lunga i proverbi, perché in essi c’è già la soluzione ed è l’unica da seguire, perché figlia di una saggezza popolare che non tradisce. Ognuno di noi dovrebbe averne sempre un paio a portata di mano, non per declamarli, bensì per ripeterseli in determinati momenti. Personalmente il proverbio “Nessuno ti regala niente” lo tengo sempre a mente quando ti propongono chissà quale offerta fantasmagorica; per non parlare di un detto romano un po’ colorito che mi fa tenere sempre la guardia alta, perché “Quanno è giornata de’ piallo ar culo, er vento t’arza la camicia”.
L’umanità ha smesso oramai di sorprenderci, e magari perché non abbiamo più modo d’educare un essere vivente (e se sì, a cosa in particolare?)?
Mio nonno aveva un asino che ogni giorno faceva sempre la stessa strada, dalla stalla all’orto e viceversa. Se si formava una buca nel terreno, e disgraziatamente ci finiva dentro, dal giorno dopo l’avrebbe evitata per sempre. L’uomo invece tende ciclicamente a ricaderci dentro e non contento sguazza nel fango che nel frattempo si è andato formando. Non sono un padre, ma vedo come molti figli di oggi vengono educati; si ricorre al giudice se il maestro non li elogia, li si manda a fare pianoforte, scherma, danza, ma solo per avere del tempo libero per andare a pilates. Una cosa che consiglio a ogni famiglia è quella di creare un circolo di lettura casalingo, ogni componente legge lo stesso libro e dopo dieci giorni se ne parla tutti insieme. La stessa cosa andrebbe fatta con i dischi. Non si può precludere l’evoluzione di un adolescente da determinati testi, da determinati artisti. Mi appello ai maestri, ai professori: “Siate quel docente che ogni alunno porterà nel proprio cuore per sempre, lasciate in loro il ricordo di chi gli ha dato le chiavi per crescere”.
Vedi Roma, e…?
T’innamori di una città decantata da chiunque, ma che le parole per raccontarla sembrano non bastare mai. Chi parla male di Roma lo fa perché l’invidia lo corrode dentro, chi ne parla bene ancora non ha visto tutto di lei. Roma riesce a stupirti con i suoi vicoli, con le persone, l’importante è aprire noi stessi al dialogo e imparare a conoscersi. Chi non lo riesce a fare vede il nemico ovunque, quando l’unico da cui dovrebbe guardarsi le spalle è proprio se stesso.
Ci racconti dell’ultimo sconto che hai ricevuto?
Ogni volta che vado nella mia libreria preferita, il direttore, sapendo della mia passione per i libri, mi porge sempre un foglietto da presentare alle casse, dove c’è una percentuale di sconto da applicare. Un gesto che apprezzo tantissimo, perché la cultura crea legami forti, fa scoprire le carte di chi si ha di fronte e ti fa capire con chi si ha a che fare. Ultimamente, quando gli ho regalato il mio ultimo libro, c’ho tenuto a scrivergli sopra una dedica che partiva così: “Al faro della carta…”, perché la capacità che ha lui, nell’indirizzarmi su un autore piuttosto che su di un altro, crea in me sempre nuove rotte da seguire.
La musica è come l’amore, cioè va semplificata o complessata?
Dopo venticinque anni di musica composta, suonata e tanti concerti, posso dirti che la musica deve essere complessa nella sua semplicità. Fuggo dagli ascolti radiofonici commissionati, dai dischi per l’estate; impazzisco davanti a un disco di Fossati, di Battiato, di Gabriel, di Sinigallia o Tom Yorke; ho speso fortune per assistere a concerti di artisti come Nick Cave o Paul McCartney, rimpiango di non aver mai visto dal vivo Gaber. La prima cosa che faccio la mattina appena sveglio è cercare di capire cosa voglia dirmi la canzone che mi canticchia in testa; ogni giorno una diversa. Stamattina era “Sparring partner” di Paolo Conte per esempio. Anche nei libri che scrivo c’è tanta musica, scrivo tenendo il tempo con il piede; le parole hanno un loro ritmo, e se vuoi che una cosa funzioni, beh, chiediti se è musicale.
Hai letto tutto quello che c’era da…?
… Leggere per capire me stesso in quel particolare periodo. Ho un comodino pieno zeppo di libri e diffido sempre da chi non ne tiene almeno uno sopra. Un giorno passato senza pensare a un libro o a un disco che vorrei possedere è un giorno inutile.
È scientificamente provato che un artista…?
… E’ un drogato di creatività. Da venticinque anni a questa parte non c’è stato un giorno in cui non abbia preso una Moleskine in mano per appuntarmi un pensiero, una chitarra o un pianoforte tra le dita, per regalargli un po’ di armonia. Oggi, in ogni settore, cercano creativi, storytellers, qualcuno che sappia raccontare a colori, ciò che in realtà è grigio; alla fine saremo sempre dei giullari, dei saltimbanchi, coloro che in realtà non lavorano, ma si divertono. Partire da un foglio bianco e creare il tuo mondo, è qualcosa di divino. L’artista ha solo due nemici da cui deve allontanarsi: l’idiota e l’assorbi-energie. Ne ho conosciute tante di persone che bastava stargli accanto una giornata per sentirti svuotato.
In conclusione, un ringraziamento può ancora rivelarsi eterno?
Ringraziare sembra essere diventato sinonimo di debolezza, quando poi ognuno di noi deve qualcosa a qualcuno. Ne approfitto per ringraziare, in ordine cronologico di ispirazione:
– Prince: il suo genio mi aprì la mente che ero ancora adolescente.
– Italo Calvino: per aver scritto il “Visconte dimezzato”.
– Il Baglioni di “Oltre”: per avermi insegnato cosa volesse dire comporre.
– Ivano Fossati: perché i suoi testi sono la mia bibbia.
– Giorgio Gaber: per avermi insegnato che tutto è possibile, se raccontato bene.
– Peter Gabriel: perché la mia musica, dopo “Come talk to me”, non fu più la stessa.
– Truman Capote: per aver scritto “A sangue freddo”.
– Teho Teardo: per avermi insegnato che la musica, anche la più estrema, può arrivare a chiunque e ovunque, basta impegnarsi ed essere coerenti con se stessi.
– A Lidia: perché se non hai una persona ogni giorno che ti supporta e ti sopporta, non andrai
mai da nessuna parte.
– I miei gatti: perché accarezzandoli mi donano tutta la calma di cui ho bisogno.
… “Scrivo racconti perché l’attenzione scema”
Alberto Fiori riesce a scrivere, per immagini spettacolari ed esplicite, storie e di conseguenza destini che chiedono d’essere ascoltati, con un surrealismo di vita vissuta.
I racconti sono dunque di un’intensità visionaria e realista tale ch’è impossibile tradire degli umori velati.
Scrittura fulminea, addirittura pretenziosa a tratti come uno scarabocchio, caratterizzante una superficie eternamente riflettente, fuori da ogni moralismo; col tentativo di uscire dai soliti schemi a rendere visive e potenti le suggestioni, in storie che si alternano di continuo con gl’improvvisi azzeramenti dei dialoghi.
I tempi della parola sono feroci, sviluppano gustose varianti tra personaggi dalla presumibile popolarità, di vasto consenso.
L’autore è in grado di legare con un filo rosso degli stereotipi, non si tratta quindi solo di un accumulo dei medesimi nel segno della leggerezza.
Si sfiora spesso la macchietta con l’impegno sociale e la rabbia, il coacervo di rifiuti sulla presenza umana è un emblema volutamente sgangherato.
La potenza allegorica acutizza le osservazioni dei fenomeni, mentre la forma del testo resta leggibile e piacevole, pur essendo poco omogenea.
Il piacere della lettura viene agevolato con muscolare, cruda spettacolarità, dov’è ben chiaro chi sono i buoni e i cattivi.
L’autore dosa ironia e introspezione specie per interrogarci su quello che ci diciamo quotidianamente, su confini da esplorare preferibilmente puntando il dito sull’impoverimento linguistico, che appiattisce il tutto… pertanto accadono imprevisti tragicomici.
Varie voci mantengono una loro coerenza rischiando di sovrapporsi, impreziosendo i botta e risposta tra luoghi comuni… libro da leggere potendo partire da qualsiasi punto, grazie alla capacità dell’autore d’immergere le storie nella cruda realtà senza rinunciare a scavare nella psicologia dei personaggi per rivelarne sentimenti profondi e origini inconfessabili.
Il tentativo di critica socioculturale, pur sempre apprezzabilissimo, è sospeso in universi cupi, claustrofobici, che accennano al grottesco.
Libro d’impianto teatrale, ciò ch’è stato scritto è lo specchio di ciò che si fa secondo lo scrittore, ch’è come se lanciasse semplici sguardi d’immagini di parole… il titolo effettivamente non è altri che un espediente in equilibrio tra risata e indignazione, a proposito d’intime vicissitudini, su cui si potrebbe fare una macroanalisi.
Il lettore può toccare l’urgenza creativa come anche rievocativa di un autore affabulante, che si contraddistingue come un piacevolissimo compagno di lettura, che con malinconica autoironia cancella il grossolano… non v’è la protervia del cantore e l’insistenza del censore, ma vivibilità e coloratezza con tutti i nervi del perbenismo di facciata allo scoperto.
Racconti mai banali, che sviluppano momenti molto godibili, con stereotipi e cliché non forzati… libro che non cede dunque ai sentimentalismi, non esiterei a reputarlo buffo, piuttosto scherzoso dacché metaforicamente congeniale per gli amanti dei deliri.
L’autore si permette di divertirsi con un lessico arrembante, talvolta coscientemente eccessivo… in una frase rischia che ci sia l’essenza dell’opera.
Non mancano rimandi alla genialità sovversiva, perciò il ridicolo non ammorba mai, bensì varia, con squarci di surreale leggerezza.
Permangono figure e atmosfere di attendibilità sociologica e di rappresentatività antropologica oserei dire, con una moderna semplicità e una crudele nostalgia investite persino sulle autoparodie, oltre che sui profili tracciati con familiarità e imprendibilità.
Come non voler bene a quest’autore, anche solo per come rinfrescherebbe la memoria generalista al lettore da subito, ricordando il Pippone nazionale, che, sancendo la fine di ogni puntata del più classico dei programmi d’intrattenimento trasmessi sul primo canale tv nel pomeriggio del dì di festa, passava il testimone a “90° minuto”!
Parole voraci data la sincerità di fondo raccolgono in momenti divertenti una pochezza riconoscibile a forza di esigere concretezza da cose stabili, forti come solo le emozioni possono essere.